“Diario pubblico”
di Giovanni Torres La Torre
I
È stata lunga
questa notte di silenzi
ognuno con la sua luna
sino al dono sereno dell’alba.
II
Conosco e non conosco i volti e i nomi
di chi ha bussato alla mia notte,
ma se vivi o morti non mi è dato sapere.
Nei sogni hanno la stessa voce
soltanto non vedi
la metamorfosi dei loro occhi,
se morti,  l’intensità tenue dell’ultimo desiderio,
cosa avevano da dire agli assenti.
Se vivi, ricordi colore di sguardi,
Il senso nascosto di un silenzio
che non turbasse le delicatezze della visita.
Ma ora, si facciano vivi, i morti e i vivi,
come meglio possono,
a consolazione di parlare e ascoltare,  
per chi ha o non ha residenza  
nel Tempio della parola 
del tamburello di farina di  Federico Garcìa Lorca
e della vita che continua.
II
Con loro vorremmo andare
ad ascoltare i flauti e le voci
della scuola poetica siciliana, 
i luoghi della bellezza mutante,
il silenzio solenne delle dimenticanze delle campane
e il brusio dei fieni e delle acque dei notturni, 
del Fitalia, degli allori di Venere,  
del mirto degli oleandri e del rosmarino  
ove vive ancora il mito della dèa Thaina;
scendere dalle cantorie del Monastero di Fragalà
per sentieri di capre e armenti segnati da Idrisi, 
di ginestre e pergole di gelsomini ed altri altari 
di divinità dei luoghi, le cui meditazioni 
sono rimaste in attesa di assenze.
IV
Vagando per altri sconfinati mondi
vorremmo metterci a prova
nell’esplorare follie di sogni, amori senza nomi
ma di altissime grazie nel sembiante,
che non pare siano vere, di angeli e arcangeli 
o di pietra o di carne, madonne di Raffaello
In uno specchio di seno che esorbita in maternità
Forse Cerere tra rovi di terre di Naxos,
ricolma, ai confini, di sommacchi per tingere lane, 
ove giungere per invenzione di varchi
in filosofia di ragionare nei passi del viandante
a cercare assiduità di gocce, per rivoli
in memoria di acque e luce
capaci di cambiare il profilo dei sassi,
delle prime luci del giorno.
V
Vorremo ascoltare la Sinfonie del mare,
il violino aprire le braccia
a figure assenti per morte agli specchi
dei laghetti del faro, alle pene che non sono andate via
senza il nostro aiuto di morire
chiudendo gli occhielli del lenzuolo materno;
aprire le braccia al nome della Terra, 
a chi si perde nella tenerezza dell’abbandono delle ali,
al sonno di Alan Kurdi, e altri, nelle volte dipinte
o superstiti tra macerie di cupole della Turchia, 
della Palestina e della Siria, 
nei labirinti del mondo, 
di Africa e America Latina,
nei loro mondezzai di lamiere e plastica,
nei fanghi ove annaspano mani di bambini.
VI
Vorremo ascoltare
l’Organo marino scendere le scale
al mare della città di Zara,
modulando andata e ritorno dell’onda
nella inclinazione del suo respiro.
VII
Vorremmo camminare con i sogni
e senza scarpe per accarezzare  le foglie
e raccontare altri passi, in memoria di fine vita, 
e chiamarla solitudine del silenzio,
Il massimo che la vita possa concedere 
bella compagna di strada di mari vaganti
verso le isole del vento.
VIII
 Vorremmo ascoltare altre voci mai udite
 e quelle amiche ancora vive, della chitarra
 dell’infollito Ferrandino al balcone della sua Luna, 
 nella terra di Ducezio, al Piano delle Luminarie,
 nelle sugherete delle Caronie, 
 delle ginestre per vampe ai forni delle argille
 dei maiolacari fratelli Fratantoni, della città
 del principe di Camastra,
 di grido disperato degli uccelli
 al tempo della rapina di Verre
 nella terra dei frumenti di Alesa, quando si angariavano i contadini.
IX
Vorremmo  ascoltare la voce di un nome
nelle terre dei fuochi, il gridio ammattito dei grilli,
il silenzio complice di persiane e municipi, 
il crepitare di simulacri e manoscritti, di reliquie di ogni religione,
di scritture di Leggi, Diritti, Doveri, il morire senza tempi di rimpianto 
per un tempo infame, quando le voci
senza forza di sospiro 
passavano da più lieve fruscio di catene 
al fumo dei forni crematoi.
X
Vorremmo rivivere altre notti, oltre lo stermino
a contemplare la luna piena di questo aprile
di tenerezze di erbe, 
transitare per tempi di amorevoli silenzi
al plenilunio di agosto, chiedere se in queste notti di cammino
una chitarra possa ancora suonare
senza pensare a una donna.
XI
Vorremmo aspettare il pane in fiore
da stagione a stagione, il rinascere
di bandiere di papaveri tra gli ori del frumento,
del glicine, del gelsomino al bacio di Venere.
XII
Vorremmo andare dal fioraio
per un mazzetto profumato, capace di raccontare   
una devozione alla sacralità della vita  andata via,
la bellezza di un davanzale che rimpiange le note di un pianoforte, 
romanticherie di petali tra pagine di libri dimenticati, 
e foglie, e nomi di strade, 
di genti venute dal mare, vicoli di silenzi, 
vallate arabe, normanne, bizantine,
con antichi frutti e mulini ad acqua, 
orologi solari, merli di castelli e torri di guardia, e colonnati 
e frastuoni di campane e fiumi delle patrie lontane
che intrecciano leggende.
XIII
 Vorremmo ascoltare l’ultimo grido di Federico Garcìa Lorca,
 il sospiro morente di Helin Bolek, dei guardini delle foreste,
 le storie di tutto quello che non possiamo nel vaniloquio di un sogno
 seppure senza tempo di scadenza,
 di quell’immortale che ognuno, a sua consolazione
 si finge di essere capace a mettere lacrime di primavere
 a ogni dolore della terra:
 può sempre essere l’ultima ai nespoli, ai ranceti, 
 alla decifrazione di messaggi in bottiglia
 che, pure, annunciavano sventure, 
 ai viottoli della collina che guidano
 all’ascolto dei singulti del mondo,
 a rintracciare il passo nascosta tra sterpi
 che riconduce alla brezza della vita,
 alle parole del poeta della ragione
 quando un cip-cip macula il silenzio
 e suggerisce la semplicità di chiedere
 con voce voce di defunti
 che tragedia sia 
 il morire di questi giorni.
Capo d’Orlando, 7-8 Aprile 2020
 
			             
			             
			             
			             
			
