con Silvia Ripoll López e Giovanni Torres La Torre
Ospite d’onore la dea Proserpina
“Diario pubblico”, di Giovanni Torres La Torre
Consultati per l’intera nottata alcuni riepiloghi di poeti e scrittori latini, non ho trovato traccia di quanto in questi luoghi dei Nèbrodi si tramanda –, da antenato ad antenato e per ere geologiche della parola –, del volto di una donna, del suo gesto di divinità nel seminare l’origano, catalogato come Origanum vulgare, della famiglia Labiàte, aromatica florescenza di terre aride, da luglio a settembre in profumo di miele, vicina di casa della maggiorana.
Smaliziate voci e per rendere omaggio ai miti dei luoghi, raccontano di gesti e passi di donna aggirarsi per i boschi nella mevenza di spargere invisibili sementi giunti dalla Grecia. Anche a noi è capitato di vedere e sentire vagolare un’ombra, somigliante a un volto che la mitologia tramanda: la dea Proserpina, ospite della festa del libro “Desiderio di chimera si sublima”, editore Aracne.
Nella notte dell’incanto celeste, era là, nella piazzetta della musica e della poesia, in S. Salvatore di Fitalia, nidi di case, calde seppure in fioca luce, finestre spente in altre.
La dea ostentava nelle vesti il rossore dei gerani in ansia di presenziare alla festa. A snocciolare le parole dei versi, lunghi in scroscii di fiume e sciolti nelle chiome, erano evocati i nomi di Monica, Rita e Selena, in privilegio di colloquiare con la luna del fatidico 27 luglio 2018. Le fanciulle del coro della cattedrale, in giovinezza dell’età di Ebe –, nel ritratto di artista smartphon si muta in nomi alterni di Costanza e Lavinia, complice la madre Silvia –, anche loro richiamano dolcezze di volti di Antonello da Messina e d’altro pennello.
Nei primi silenzi, dalla Valle del Fitalia, verso cui, in un tempo memorabile scoscendevano i richiami alla preghiera dei bronzi oricensi del Monastero di Fragalà, appeso più alla solennità del cielo e alle melodie di Olivier Messian –, in visita ai luoghi ho udito arrivare Dans le noir, stella splendente dei Canti del cielo e della terra –, e in quelli, che ruzzolavano per dirupi di ginestre tralasciando viottoli di selvaggina; solo in quelli e solo per amore, potevi udire nudità di piedi cercare il terreno più tenero per non ferirsi la carne: potevano essere fatiche di madri o fanciulla con la capra piena di latte, o altre con pesi sulla testa, legna da ardere per bollire erbe, fasci di ginestre per l’ultima fiammata al forno del pane, per invogliare la rosa a calare quando è ora. Non si indugia a pensare che quella nudità di passi lievi fosse bellezza di dea e non spina di povertà, perché il canto che il vento olezzava, s’allegrava in tono, non era cantilena di lavoro, e la figura che appariva in recitazione della vita canticchiava parole latine, voce nei capelli e in vestiti di primavera, dimensione felice del viaggio, camicia ricamata per il ballo della poesia nella notte della scomparsa della luna. Quel passo felpato era studiato per accostarsi all’altare che si arrossava nell’infinito impero dell’evento celeste col rossetto di papavero sulle labbra.
Fanciulla del coro, tirandomi per la camicia, in occasionale ombra rivela di aver udito sussurrare, in una canna di comignolo in disuso, queste parole: “Ti insegnerò, per il bene che vi voglio e quando vorrai, ad imitare il silenzio”. Non poteva essere che la luna a parlare sul tetto, o altra voce divina, presa da ardori notturni.
Notte di eclissi nella piazzetta di S. Calogero; non avvistati i reggenti del Municipio e della cattedrale, tiene pulpito officiante il Direttore del Museo siciliano delle tradizioni religiose: il suo nome è accreditato nel fonèma Antonello.
Parlando alla luna e alla poesia, la sua voce, sul filo dell’emozione, si dipana lungo la realtà e l’immaginario di un confine: dice del poeta amico e dei suoi libri, della premurosa identità nella luce e nella terra che vive, in compagnia dell’amorosa luna e delle fatiche della vita, lasciando tra le righe spazi bianchi perché anche altri, leggendo possano ancora scrivere di altre memorie taciute, scelte di destini impossibili, tracce smarrite, figure di pittografie.
E’ nell’ordine della ragione dire di una notte speciale di luna del ventesimo secolo –, anche se, da sempre, il respiro della terra è attribuito al suo movimento-, corretto affermare che la bella signora appare e scompare al mondo come i ritmi della vita, maliarda e gentile nei suoi scialli d’oro, a volte in pallore di camicia, astro dei poeti e dei lupi mannari, dei Notturni di luminosi pentagrammi di Chopin e delle Sonate in chiaro di luna di Beethoven, ben noti alla Banda Musicale Vincenzo Bellini del paese, protagonista di letture di allegri spartiti di giorni di festa.
In ascolto, in questa magia, natura ed esseri viventi; le fanciulle dell’età di Ebe, lasciate le note della fanfara in riposo sulla scalinata della piazzuola, svelano alla luna le ansie della bellezza della parola con tonalità di voce suadente; interpretano accenti dei loro luoghi, tonalità dei vicoli della parlata popolare in sfumature di viaggi a ritroso, tempo dell’infanzia, dei primi palpiti di cuore in personalissimi fotogrammi ancestrali che si mostrano e si nascondono nei Volti, Visibilità mutanti delle opere in mostra nel Museo, che vorrebbero uscire per partecipare alla festa della luna e della poesia; non potendolo fare si abbracciano, svelano, a chi legge, il loro paesaggio interiore, le facce di carbone del poeta e i volti in visibilità mutante di Silvia Ripoll Lòpez.
La luna è tra le prime donne del teatro viaggiante, in questa sua notte a metà strada e ai margini della vita festante.
Le fanciulle che recitano, ammaliate, ascoltano i sospiri notturni, conoscono i nomi delle strade, le tonalità del parlare arabo o latino e d’altri ceppi, il tossire della notte nei vicoli, lo smarrimento delle civette, lo sgomento degli alberi arsi per mano di briganti e piromani, il biancore della luna della notte di prima, e ora “il sole della notte” del carùsu Ciàula, evocato da Pirandello nel racconto Ciàula scopre la luna, di cui scrive Stefano Lanuzza, in prefazione al libro Luna visionaria edito da Prova d’Autore e con sottotitolo Canto per Federico García Lorca.
“O generosa luna io mi rammento”, di Leopardi, nel XIV dei Canti: luna nostalgica e della inquieta visione, sei sempre tu, dei poeti di ogni tempo.
Ne parla, sgomitolando la matassa della poesia e nelle parole più belle della festa, la gentile professoressa, critica letteraria in nome nobile dei luoghi, e che suona Mariella Lo Castro.
Recita anche lei, con devozione, alcuni passi che richiamano Ariosto, il suo Orlando Furioso, custode del senno perduto di Astolfo in cerca del suo amore sulla luna.
Luna estetica e luna poetica, “luna fosca di colori”, immagine che si specchia nei Cantos di Pound.
Da lontano fa ancora eco Stefano Lanuzza nel richiamo al sorriso dal volto notturno “in ascolto dei versi contabili di Torres, di una musicalità panica”, così scrive la penna siciliana con domicilio di calamaio in Firenze.
Parole che si ascolteranno ancora, quelle della notte del 27 luglio 2018, in una piazza in festa, ove a piedi nudi è venuta ad ascoltare Proserpina, sui Monti Nèbrodi, in S. Salvatore di Fitalia, sotto il cielo dell’astro di fuoco, a svelare l’amore della poesia per la luna, le “voci degli uccelli dai misteriosi richiami”, del nome del padre e della madre nel paese dei gelsomini, delle visibilità mutanti nell’insonnia che martella e nella felice vita, nel respiro della terra, nei tempi duri della poesia che non può morire, delle parole dell’alba che ritrovi ancora assonnate sul comodino.
S. Salvatore di Fitalia, Museo siciliano delle tradizioni popolari, 27 luglio 2018