di Giovanni Torres La Torre
I
Da qualche parte giunge quello che ora ricordo,
la sapienza della parola di qualcuno
mi sollecita una riflessione, suscita emozione,
nostalgia, forse rimpianto,
un tramestio di echi nella memoria,
ricordo di un suono di organo a canne
alla cui tastiera
il sacrestano improvvisava
solennità di cappella.
Tornano così, improvvisi, i molti luoghi, i libri
i suoni che ognuno di noi ha ascoltato
in quei paraggi ove la nostra età ha lasciato alberi e fiumi,
suoni significanti – il tocco dell’Ave Maria,
di festa o di addio –,
altri vocalizzi di fisionomie umane o animali,
languori del mascherone di pietra
della fontana sulla cui fronte si appoggiava la mano
per chinarsi alla sua bocca e dissetarsi.
Anche le voci degli affetti familiari, di amori e amici,
il vento nella notte dei naufragi e la morte,
tornano nelle movenze quotidiane;
un linguaggio più intimo, anche di silenzi,
una marchiatura sulla carne,
un riandare lento di passi, come fotogrammi;
sembra di essere là , a rivedere le rughe delle pietre
e toccarle nelle striature degli scalpellini per intagliare abbeveratoi,
archi di porte, fonti battesimali.
Piccole cose, alberi, strade, lampioni, orizzonti,
costituiscono ancora
punti esistenziali di riferimento,
di feste e inquietudini, che si mischiano e si dilantano;
matasse, ricami, fili di paglia, giochi, labirinti,
i temi eterni della vita, il teatro delle ombre
di cui parla e scrive la poesia
indagando i fascini improvvisi di visibilità mutanti.
Tornano l’inchiostro delle prime poesie,
il libro di calligrafia gotica della madre,
l’Orlando Furioso e il gioco musicale
delle durlindane di latta,
la rosa che calava al forno del pane
nella giusta chiaria dei mattoni
di terracotta,
con regola di parola che da grande
scoccherà dalla fionda
la prima pietra assassina.
II
Alle fontanelle pubbliche, in fila,
le donne dei quartieri popolari
– Rabite, Castello, Fontana del Tocco –,
quelle madonne contadine
attingevano con panciute brocche di argilla
o rame o ferrismaltati;
adagiavano i recipienti, poi, sul capo coronato
da un panno; equilibrando il carico:
il disuso ha ora smarrito il suo nome che comunque resta cércine.
Come risaputo, quella figura, nella posa rimanda ad altra,
denominata carià tide, detta anche canèfora
quando sostiene un cesto e non un architrave.
III
La parola, nella poesia, compie il tentativo
di evitare che perda la sua intensità ,
la sua sapienza interiore, di rafforzarne le doti,
di non vederle patire
nello svuotamento del loro significato:
quando ciò accade si rompe il circuito virtuoso
tra realtà e lingua.
Questa esperienza combinatoria
la crea il poeta rabdomante, Stefano D’Arrigo
nel cercare sotto terra la falda, con la speranza di trovarla.
Mondi che si incontrano e si abbracciano,
si contornano, si accarezzano di sguardi, si consolano:
natura e psiche si parlano,
comunicano intimità di metamorfosi,
– viene di pensare alla poesia delle macerie, –
prospettano paesaggi, raffigurazioni che si specchiano.
Chi riesce a fare questo
trova le parole per la poesia, la tragedia del carbone bruciato,
la composizione di una musica, la creazione di un’opera che sappia dire,
mostrare, comunicare, costruire, comporre, raffigurare;
usiamoli tutti, questi verbi che definiscono la creazione,
perché è in questa pienezza
che i molti luoghi dell’anima vivono come vedette:
sono luoghi totali di orizzonti, di suoni, di profumi, di libri.
della conoscenza, dell’esperienza, del lavoro.
IV
Siamo esseri viventi di una geografia, radici della terra in cui viviamo;
fuggiti dal cerchio murario, vagoliamo e divaghiamo per altri mondi.
Il nostro abisso è quello del mare, della sua carne,
contiene scaglie e rottami di mercanzie non solo nostre
e naufragi di parte di noi;
tornano così le tragedie delle migrazioni e dei conflitti,
le epopee e i massacri, gli approdi del sogno,
i manufatti di lontani imperi, epigrafi che invocano soccorso,
i numeri e gli alfabeti, le dominazioni che ci hanno conquistato:
di tutto ciò, – reperti della nostra vita –,
riempiamo le parole che li definiscono,
componiamo visioni, teche, musei, altari,
angoliere con lampe a olio, per lumeggiare volti di solitudine.
La poesia è questo sogno reale e fantastico,
magico e surreale;
è questo racconto, questo incubo,
questa felicità e questa inquietudine umana.
Così, la parola è l’anima della tragedia e della poesia,
l’argilla del primo calice;
aiutiamola, è tormentata da lunga esperienza,
la sola capace di raccontare la vita
con meravigliose immagini;
è quindi la storia dell’umanitÃ
con linguaggio di lunga esistenza.
V
Dietro le ante di ogni armadio, oltre lo specchio,
in tutte le case vivono un sogno e una storia,
la parola della poesia ha la potenza di raccontarli.
S. Salvatore di Fitalia, Museo d’Arte Sacra, 20 Giugno 2018