Le sette parole dell’umana rappresentazione della divina tragedia della Via Crucis

LE SETTE PAROLE DELL’UMANA RAPPRESENTAZIONE
DELLA DIVINA TRAGEDIA DELLA VIA CRUCIS

di Giovanni Torres La Torre

Drappi in lutto
rapivano la luce solenne della cattedrale
le cui vetrate bizantine
illustravano la vita dell’uomo crocifisso.
Una voce di stupore
chiamava col lamento delle sette parole:
Dio mio, Dio mio, perché m’hai abbandonato? —.
L’aceto disseterà dopo
il silenzio del morente
che le pie donne invocano ancora
col nome Nazareno.
Nel suo notturno di smarrimento
fiore mistico chiudeva le palpebre
a vocazione di silenzio
per l’infinito nascosto pianto
di cui in vita petali di labbra
avevano conosciuto il respiro dell’implorazione.
Ma, a chiarire la forma dell’anima
la ragione umana non ha spiegazione
e dell’uomo crocifisso, figlio di Dio,
l’inchiostro non può dire
se mortale o immortale
o quale destino terreno lo somigli.
Quando i lampi squarciarono
la solitudine della croce
e la madre potè adagiare
sul grembo addogliato
il deposto, — figlio, oh figlio, il cuore m’attorciglio! —,
la sconsolazione
si accostò a sentimenti materni di dolore,
— ariglio mio di noce, spiga del petto
che ti hanno fatto che meritavi? —.

II
I teatranti della Via Crucis
con trombette oltraggiavano
il respiro inacantatorio e profondo del dolore,
con toni urlanti e di scherno.
Altre storie insanguinano lame di coltelli,
fantasmi di genocidi e carovane di esuli
che dai deserti sconfinano verso mari di morte;
giungono da villaggi d’Armenia,
dai fanghi delle deportazioni e dagli esodi;
dai cieli dei campi di sterminio,
in forme cristalline di sangue e polvere
a oscurare le stelle;
dalle città e dalle pianure del paese dei cedri,
da terre confinanti e lontani oceani
accomunati dall’orrore del razzismo,
e ove bande di criminali e governanti
assassinano i loro popoli;
luoghi che evocano
il teatro della più crudele empietà.
Da questi continenti di fame e malattia
arrivano voci e figure di morti
per cercare l’abbraccio dei vivi;
reclamando che la storia non sia dimenticata
strattonano i dormienti
chiamandoli come nuovi testimoni.

III
Una preghiera vagolava tra l’orto degli ulivi
e i deserti;
nello stormire delle frondi
si udivano lamenti di orazioni
e suoni ignoti,
ma quando tutto fu compiuto
e l’uomo in croce si affidò alle braccia del Padre,
i flauti e altri ansimanti tremori
sospesero i sospiri,
le nubi oscurarono la luna
e i timpani annunciarono lampi e tuoni;
si nascosero gli uccelli
e in altre lontananze
il vento impietoso bruciò le orme
degli ultimi erranti che disparvero,
le oasi e le acque dei mari arsero di sete
e pure le colombe ammutirono e l’altri uccelli
nascosti nelle ferite aperte della roccia.

IV
Il sacro muore in pena
nei roghi delle chiese
che bruciano le piaghe
alle mani del Redentore,
i libri di civiltà e credenze
e le capanne e i templi di altre preghiere.
Si consumano nelle fiamme
le erbe e i frutti della stagione,
si disperano le ceneri delle biblioteche,
le glorie delle figure dei musei,
le pale di antichi altari di fede e sapienza
nelle icone adorabili
di madonne e profeti
che lasciano con generositÃ
un volto in dono all’anima dei superstiti
e una fisionomia di rughe e sorrisi
che i discendenti
nella fatica tragica dei giorni
si contendono nei benefici della somiglianza.

V
Nei dipinti che amiamo ricordare
resiste quel volto terreno e divino
che conserva come meglio può
il profilo della sua tragica intensità e bellezza.
Ma milizie di pestilenza
in combutta con governi di canaglie,
alle sole ali che aprivano un sogno di volare
concessero breve fiato
e incompiuta cadde la stagione:
frutto acerbo della vita
fuggì inorridito dalla festa
e si nascose tra le stelle.
Slegandosi dalla sorte bella
sulla riva di antico mare
muore l’ebreo errante
arenandosi ove in un tempo lontano
si offriva un bicchiere d’acqua
e una fetta di pane.
Un solo segno di mano lusingava altro destino
sulle corde di un’arpa;
l’emozione di una musica poteva ancora raccontare
la storia dell’umanitÃ
e la memoria mai stanca
anch’essa era là, a svelare
chi siamo e da dove veniamo;
parole di poesia a volte offrivano
incentivi alla tenerezza,
seppure il morente fosse già figura di sale
estasiata al pensiero del lungo viaggio.

VI
Nei giorni dei quotidiani massacri
recitiamo la nostra parte di teatranti
tra finzioni e realtÃ
mentre nelle periferie della solitudine
delle tendopoli e dei nidi,
solo una fisarmonica superstite
arrangia un miserère mei di fin di vita
per le ombre vaganti nei deserti della sete
e nei mari dei pesci e dei morti.

VII
C’è un cratere
tra ciò che sappiamo e il mai visto
che percepiamo come forma di umanità della memoria
che ci consente ancora di amare la musica
e avere un nome di ragione e pietà.
C’è una voce che grida il fiato profondo
del ritratto di Edward Munch,
c’è una lama spezzata e una luce tremolante di ombre e lume
dietro le porte delle case
e la smorfia del toro di Guernìca
appena macellato in cucina;
ci sono le forme dei sorrisi amabili delle madri
e dei padri
e delle sorelle raccoglitrici di gelsomini
in un tempo triste e per un pugno di farina;
ci sono fiori e stagioni di frutti
e bambini che hanno ancora
un qualche incanto spensierato
di farfalle e aquiloni di orizzonti incompiuti.
Ma altro urlo con mani disperate tra i capelli
corre a gridare il nome di Lara
trucidata nel campo di Larissan
ove studiava numeri e alfabeti,
o nei villaggi del Kenya
o nelle chiese cristiane o altri tèmpli o moschee
o sinagoghe o sacrari nascosti nei boschi
o edifici ove si custodiscono simulacri di divinità.
Mummie e scheletri di corpi santi
delle religioni accomunate nella sacralità della pietra
— già carisma appena sbozzate
eppure resti ancestrali della memoria —,
vengono devastati dalle armate nere
e altri profanatori,
e poco importa se immagine di Budda,
orma di Abramo,
lastre di sepolcri,
granito della colonna della flagellazione,
corpo sacro sul legno della croce,
storia della civiltà e memoria
nei reliquiari del mondo.
Figlia di antica luce
Lara non vedrà più i volti degli antenati
e delle loro divinità,
non volerà con ali spensierate
oltre i profili dei monti e delle colline di sabbia,
e del mare che prometteva
il suo futuro.
Occhio di corvo ha rapito quegli orizzonti
e il vestito color fiore della fanciulla
spinto sul respiro aperto del dirupo.
Un suono possiamo percepire
nel vento tra le erbe
e l’eco di quel nome accarezzato dalla madre
offrendolo alla tenerezza dolorante della sua figura
con un mazzetto vago
di fiori amorosi di luce.

VIII
E noi qui, in disarmo
nella sera di tenera luce
quando le armonie del giorno
si svelano in altre finzioni
e sospendono chiarezze di immagini che patiscono
e dissonanze di magia che declina;
suoni e colori d’una bellezza che però
resiste all’assurdo silenzio che prende fisionomia di menzogna
e intento a coprire il pianto ininterrotto del mare.
E’ il male del mondo
che non sopporta la bellezza della vita
la sua immagine di grazia vagante
sguardo di luna, amica dei continenti
e d’ogni armonia di nuovo stupore,
sera che attende l’ultima luce
di infiniti desideri.

VIII
Per i boschi del mondo
la luna cerca altri nomi
nella vita che sale dalle radici della terra,
ma alle finestre ancora accese
dai profumi stanchi di garofani
non bussano più ricordi
ed è raro il fiore
al monumento spezzato nel collo
e tu, oh bianca luna della disperazione!
hai perso il sonno
e non sei più ospite alle feste d’amore;
ti fingi così venditrice di specchi
e offri gli ultimi pettini di osso
e fili per ricamo di ogni colore
ma al diniego di un bicchiere di vino
porgi tremante l’immagine di un santo
e ti allontani con passi smarriti
tra erbe nude e vaganti del sentiero,
oh astro d’amore di giorni infami!

X
Si improvvisano canzoni nelle osterie del mondo
ma non c’è amore che confidi
suoni compiacenti e glorie di bandiere,
nostalgie di giorni
ora spezzati da irosi schiamazzi
di vino e coltelli
furia di bestie su spose e sorelle
e bambini,
sulla vecchiaia dei morenti.
Non ha più voce di cantare
la fontana generosa d’acqua alla sete degli uccelli,
non ha luce lo sguardo di don Chisciotte
che scruta ancora vaghezze di orizzonti
cercando fisionomie di mulini a vento
e orientamenti per tornare dalla sua Dulcinea
che incipriata lo attende.

XI
Echi giungono da lontananze porporine
nel profumo innamorato del cielo
ma ha chinato il capo la rosa nel bicchiere;
scrutando il mare che si perde
il pescatore di Lampedusa con aria da veggente
confida che gli uccelli se ne vanno
senza promessa di tornare,
sicché la vita che rimane
fatica a dire le parole
per i battiti nascosti e ai quali sono ignoti
i nomi che verranno.
Sono partiti all’improvviso
per non spaventare i morti
con battiti nascosti d’ali
e al dolce nido
non resta più volo per tornare.

Capo d’Orlando, 1-15 maggio 2015

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