Volo a Palmira senza ritorno

VOLO A PALMIRA SENZA RITORNO

di Giovanni Torres La Torre

“L’uccello che canta e non si vede
si sente meglio”, ricordò ancora una volta
il poeta.
Di buon mattino
il maestro di felici segreti
preso possesso delle vertigini del cipresso
alto oltre il mare all’orizzonte,
espose d’un fiato il programma del giorno:
dove andare, chi cercare
gli incontri e il ritorno al nido.
A chi era intento all’ascolto
nella cantoria
svelava sorprese di lievi note
nel bisogno che sentiva
di esporre commozioni di fiati d’organo
a lui stesso ignoti.
Di quanta grazia fosse la novità sonora
si stupivano dall’alto di tribune
incredule creature in emozione
che sospendevano giochi di loro incanti
per unirsi al nuovo coro.
Fraseggiavano speranze
in dolce stil novo
ricordi di giorni vissuti,
turbamenti di trilli d’allarme
o d’altre storie cruenti sino allora sconosciute:
gioie da vivere e altro gran dire
i momenti dell’alba già in cammino
spente le ultime stelle dei destini
quando, al primo raggio che conduce
riluce attento l’occhio cristallino
per avventura di volo
in brillantezza di nuova luce.

II
Sempre più rare e preziose
apparivano tenerezze d’erbe e brina
e amorosi giochi e giorni nuovi
sicché, a guardare quei mondi
erano svanite le ombre dei furtivi incontri
nel tempo dei generosi incanti d’amore,
degli intrighi dei labirinti
di siepi e more, di feste di sposalizi
e d’altri riti di iniziazione
che orchestrali di lunga gloria allietavano
sotto bacchetta del maestro Olivier Messian
su invito a comparire a corte
il cui magico richiamo competeva all’Orsa Maggiore
generosa regina dei destini.
Se era Orfeo a cantare, o altro inganno di specchio
risultano vane ansie di rinvenimenti
tra le scartoffie della storia
del museo sonoro del bosco della memoria,
seppure si tramandi la menzogna che il nobile figlio
della Musa Calliope
abitasse in quei misteriosi luoghi
di nobile canto e tragica morte.

III
Di gridi di gabbiani e pianti
per la morte di Euridice al morso del veleno
e smarrimenti di vele di vascelli,
di mitologie e malie di sirene
di leggende di pirati e guerrieri,
di bronzi e altre divinità in figure di pietra,
di antiche monete di Imperatori
e d’altre rarità di glorie perenni,
di tutto questo mondo di storie e tragedie
il Mare Mediterraneo è custode severo
e ora anche pietoso per i mille e mille nomi
naufragati su rotte di mercanti di inganni
di esodi di ingannevoli miraggi e terre ignote
di una umanità dolente
che fugge da un continente martoriato da tiranni,
da negrieri, dalla fame
e dalla morte per sete perenne.

IV
Sogno dolente negli spasimi estremi,
quando anche gli astri degli oroscopi si spengono
e la luna è violata nel silenzio della preghiera
mentre nel lontanar d’ogni pietà e luce
ogni sconfinar degli occhi è immenso deserto:
morte le pietre coi nomi della memoria
morti i vivi e i fiori nei dipinti di felice mano
morte le erbe e le acque dei pozzi,
morta anche la morte delle epopee luminose
nei teschi delle ultime bandiere nere.

V
E’ ancora vivo il ricordo di voce dolce
dell’uccello cantore sul cipresso.
Spezzate le ali e perso il volo del ritorno
resta il rimpianto degli azzurrini cieli
nel racconto che si tramanda
di quando
dopo lungo pellegrinare depose un rametto di nepitella
su una fossa di morti che non avevano avuto tempo
di confidare i loro nomi
giunti dal deserto della Siria nell’antica città di Palmira.
Al conforto dell’amorevole foglia
le anime affogate nella polvere si cercarono ad alta voce
stringendosi alle figure di pietra degli antenati
aggrumandosi nei veli dolenti delle madri
violate dal freddo dei coltelli.

VI
Seme miracoloso d’artemisia, erba di medicamenti
sulle ferite della vita,
la cercarono labbra di dolore
a contornare cumuli di ossa e terra
nella grande valle del silenzio.
A luci ancora spente giungeva
il Miserere di Allegri
nei toni del salmo penitenziale attribuito a Davide
per il canto nell’Ufficio delle Tenebre.
Aleggiava in segreti appuntamenti
in luoghi ove bisbigliare ancora
divinità di impossibili parole terrene
lasciando il sonno dei nidi in sconforto
nel deserto solenne delle navate
stordite nell’ardore di fiammelle fioche
di cere e incensi dell’addio per sempre:
erano tornate a signoreggiare sulla tragedia dei giorni
le sembianze della morte.
Altro abisso si apriva di incommensurabile terrore
perché si spegnevano l’aurorale piet
e la legge e la giustizia dei diritti umani
smarrendo nel silenzio e nella viltà del mondo
l’ultimo patrimonio d’amore dell’umanità:
la possibile parola visionaria della luce del sacro
di un’epoca stanca delle promesse e dei fiori
dimenticati sulle lapidi dei cimiteri.

20 maggio – 5 giugno 2015

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