Comune Amica¹

di Giovanni Torres La Torre

In memoria della nipote Gea

 

Leggendo e ascoltando si vorrebbero ora trovare
altre parole per arricchire la trama dei libri letti,
e note di dolcezza sconosciuta
per il pentagramma;
indovinare da quale parte di orizzonte
era stato affidato messaggio in bottiglia
ancora in possesso di incompiuto destino.
Si potrebbe chiedere a ciurma di malasorte
aiuto estremo per dipanare la matassa,
ma il vaneggio della cima lanciata
è pari a tatuaggi arabescati con strane ombre,
a note di furore emotivo
come fuoco improvviso nel silenzio del bosco.
Marinaio tenero di cuore e ignaro di questi tormenti,
coltiva sul petto una rosa con spine di sangue,
ma il rosso non dona profumo, una Lili Marlene,
forse nostalgia nell’ultima sosta di vicolo
che si profuma facendosi sentiero, per dove perdendosi
in cerca di chiromante i suoi passi si imbattono
in altri petali stellari di genziane.
Nel viaggio che intraprendono, quasi in sogno di specchio
cercando pianori, faticano a respirare
umidità erbose che hanno perso vicinanza
col suono dell’onda.
Tu pure, salendo da quelle parti di luna di innamorati,
incontri quel nome di fiore sulla prima collina, verso il borgo
ove fa gobba una siepe di profumi, ad un balzo dagli scogli:
– Mi chiamano Centaurea Minore –, sussurra la ragazza
che amava il mare – , e vengo dalla leggenda.
Ho medicato le ferite del centauro Chirone, maestro di Achille,
ma i miei antenati erano della stirpe di Erba China,
in parentela con quella di Fiele della Terra
che fu di tintori, verso i monti più alti,
che l’usavano per il giallo verdastro.

Ci vorrebbe una nuova generazione di poeti e compositori
che si appassionasse al tema della “comune amica”,
a quelli della vecchia scuola non è concesso altro tempo,
ma per consolazione possono tuttavia chiedere aiuto
alla formica cui è stata bruciata la tana,
a giovane ragazzo con la fisarmonica del nonno,
spolmonata e superstite della tragedia balcanica,
che chiariscano con quali parole cercano di sopravvivere;
si può chiedere a goccia di una qualche sete,
forma perfetta della bellezza, amore che a furia di piangere
si è fatto torrente, suono di pianoforte che si interra
cercando radici, scompare nella compostezza della morte
o ritorna a bussare ai vetri della notte;
si può chiedere alla timidezza del coniglio
che viene alla siepe con passi felpati,
in visita di lutto senza turbare il silenzio di Gea;
si può chiedere aiuto al canto della cicala solitaria
quando timorosa apre il concerto, che sveli
il mistero delle prime note, alle pigne
superstiti al rogo degli incensi
o a qualche grillo di sete perenne, in cerca di voce
per sussurrare alla valle le scuse della sua chitarra
per la quiete turbata, alla stessa parola
uscita per una boccata d’aria sulla porta
o a conchiglia che si ascolta per l’ultimo consulto,
prima che una fitta al petto
si incarni con nome di fiore o di farfalla.

¹) Signora Morte parla al poeta e amico Matthias Claudius:
     “Dammi la tua mano, bella creatura delicata!
     Sono un’amica, non vengo per punirti.
     Su, coraggio. Non sono cattiva,
     dolcemente dormirai tra le mie braccia”.
     Franz Schubert trasse ispirazione
    per una sua opera dalla canzone del poeta
   “Der Tod und das Madchen” (“La morte e la fanciulla”)
   e definì la morte “comune amica”.

 

Capo d’Orlando, Lungomare di S. Gregorio, 12-14 Agosto 2017

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