Recensione della Prof.ssa R. Vitanza
Viandante coi polmoni sfondati della fisarmonica/ scioglie la parola nel canto prolungato/ che cerca di dire qualcosa……. la memoria si scioglie dalla cenere/ tornano gli anni ricomposti / vivi uomini e imprese canta la parola.
Mi piace iniziare questa mia prolusione con l’immagine del poeta vate che emerge dai versi iniziali del volume “Bellezza Mutante” di Giovanni Torres La Torre, poeta vate che traduce in senso profondo il concetto foscoliano della poesia intesa come illusione che ha funzione eternatrice, perchè rende immortale chi scrive e chi è protagonista dei versi poetici E tu onore di pianti, Ettore, avrai,/ove fia santo e lagrimato il sangue/ per la patria versato, e finché il Sole /risplenderà su le sciagure umane. Tema che si coniuga bene col messaggio carducciano del poeta della Storia e che troviamo in perfetta sintonia nell’opera ultima di Giovanni Torres laddove la parola canta uomini vivi e imprese ed evoca la memoria di anni trascorsi e luoghi narranti.
Weltanschauung* complessa e poliedrica quella dell’autore, poetica fluida e profonda, dove il pensiero assurge a catarsi del dolore pur mantenendo un pathos infinito da tragedia greca, con un Coro assente nel reale ma presente nell’intensità delle emozioni suggerite da una fonesi tipicamente montaliana, laddove il vate contemporaneo utilizza un timbro acuto per le immagini squillanti che rompono il silenzio, un timbro cupo o chiuso per raffigurare suggestioni tristi, inquiete e tenebrose.
L’opera di Giovanni Torres La Torre si snoda attraverso un percorso molto articolato ed in continua e costante evoluzione, è questa infatti la significazione del titolo “Bellezza mutante”, è un nostos, νόστος un viaggio interiore, nella storia, nei luoghi della memoria, nelle proprie radici; il termine infatti origina, dalla parola “nostalgia”, νοσταλγία quindi dolore, mancanza; non traduce una partenza ed un ritorno, piuttosto in senso simbolico indica il desiderio, la tensione di conoscenza e di ricerca e – viceversa – di distacco, di esilio, di perdita, di allontanamento da sé e dalle cose più care. L’esilio è ideale in quanto percepito come distanza dall’adolescenza e/o lontananza dai luoghi dell’adolescenza Rabite e le parole nel dialetto di San Piero Patti fanno avvertire forte questa sensazione che, peraltro, non perde neppure la flessione linguistica. I dammusi a mucciaredda i cutidderi, a timpa
E la tensione di conoscenza e di ricerca caratterizza la tecnica espositiva e altamente lirica del nostro volume, è una poesia narrante e, al contempo, non si snatura e mantiene integra la veste metafisica dei versi, i pensieri si armonizzano tra di loro senza soluzione di continuità, in una alternanza che ricorda una danza creativa ed euritmica, il poeta a volte sembra sobbalzare all’affollarsi dei ricordi a volte pianifica la narrazione creando un’ armonia lirica fatta di lemmi che preludono e sintetizzano.
Ideologie espresse e scarnificate senza riserbo precedono eventi dolorosi in una mistura di lacrime e sangue e l’autore magistralmente riesce a fondere in un unicum la pluralità delle emozioni alleggerendoli, talvolta, con gradevolissime immagini di fiori e di stelle rivestite di luce.
Davvero magnifica questa fusione di toni e di colori che concede una pausa al pathos dei grandi drammi della storia, questi aggrediscono l’animo dell’umanità in antitesi con la poesia che invece offre grazia e armonia, è nell’abilità dell’autore, siciliano come Quasimodo, fare suonare le cetre abbandonate alle fronde dei salici.
E mentre il poeta tace nelle case dello squallore mancano i soldi per il pane e il sapone, sono allocate le scarpe del padre disoccupato, delle madri con i seni discinti privi di latte, secche nella circonferenza delle pance, secche nelle braccia nude nelle mani bruciate dagli stenti nei capelli senza nobiltà di chioma.
La descrizione della povertà della plebe siciliana che non è miseria ma umiltà, si può chiamare Nedda o Turiddu oppure Gna Pina o Ntoni, personaggi che non hanno un nome, come spesso dice il nostro autore, non hanno nome neppure nei campi di concentramento, dove sono resti ammucchiati, hanno piuttosto una identità precisa nella poesia e sono raffigurati nella loro essenza, raccontano una storia infinita e dolorosa e la parola divenendo essenziale rappresenta il reale e si nutre di particolari all’apparenza semplici ma traboccanti di ricchezza interiore.
Il reale è storia e se la storia percorre le sue vicende nei pascoli verdi e nei ruscelli cristallini in un compendio di felice equilibrio dell’antica Grecia o immagina la Luna come figura eterna di favola etrusca dorata di rame allora tutto si erge maestoso nei canoni eterni della bellezza e della poesia e così come il mondo greco era il mondo della “bellezza”, che l’uomo moderno non riesce a coniugare perché egli è fonte perenne di discordia interiore e di dolore, Torres La Torre concilia tutti i percorsi nella sintesi hegeliana del “corpo strumento della libertà”.
Analizzare la scrittura dell’autore di “Bellezza mutante” a mio avviso è un esercizio critico complesso sia per lo straordinario lavoro semantico delle poesie sia per la poliedricità di argomentazioni e di riflessioni che ne scaturiscono anche per un lettore non molto attento.
Bisogna inizialmente riflettere sulle dimensioni del reale, che la poesia cela tra i suoi versi, e di ciò che reale non è perché questo poi si identifichi nella maestosità dell’infinito – sogno, nei versi, infatti, talvolta la realtà trova la sua collocazione nel sogno col quale bene si armonizza attraverso una fluidità lirica nuova ed al contempo molto impegnata ideologicamente. Non si librano nel cielo / leggere le pure stelle della primavera/ cantava il poeta il suo sogno/ma c’è una magia che ha la forza di oltrepassare i muri/ è la parola che canta la libertà/compagna del vento/ che nessun tiranno potrà mai fermare/ né fuoco brucerà l’inchiostro / che le parole ricamano sui quaderni del Carcere / sui muri delle strade
Nella struttura la poesia di La Torre non risponde ai canoni della poesia classica ma offre al lettore la possibilità di soppesare ogni parola che mai è casuale, senza interrompere il pensiero quindi il ritmo.
Nessuna punteggiatura tra i versi che armonicamente si alternano con le pause che sono insite nello scorrere dei versi e dei pensieri.
Il fluire del pensiero si arricchisce di un continuo ininterrotto di figure retoriche, talora la descrizione naturalistica ha le caratteristiche di un idillio teocriteo o leopardiano, si affolla con un insieme di sinestesie e onomatopee tanto da avvertire, durante la lettura un lieve o, a volte quasi martellante, incedere di note e suoni che raffigurano immagini che agitano il cuore e la mente quando il dolore esplode o il sangue scorre copioso o librano lievemente il lettore sui pascoli nebroidei o nel mare orlandino – siculo a volte sereno a volte foriero di morte.
La bellezza cresce attraverso le parole, attraverso le immagini che le parole costruiscono, attraverso le immagini che i pennelli dipingono che non sono mai statiche perché sono visibilità mutante nei cento occhi che le osservano perché sono cento come i volti dell’uomo pirandelliano.
La bellezza è l’unica idea “visibile”, capace di guidare l’anima nel suo “metafisico cammino di ritorno” all’Uno, teorizza Plotino, ed è transeunte capace di veicolare dall’opera d’arte allo spettatore/lettore consentendo una variabilità di lettura o di esegesi (interpretazione) mutevole ma sempre coerente, e con grande impatto emotivo fino a determinare la Sindrome di Stendhal.
La parola dunque è l’indiscussa protagonista di quest’opera, gioca a significare sia da sola che più insieme, sempre propone immagini irripetibili e uniche che fanno volteggiare tra prati e verdi colline o legano al bandolo della matassa degli eventi esprimendo tutto il dolore e lo smarrimento che l’animo umano può contenere.
Ti sono grata sospirò la parola alla foglia ancora appesa all’autunno la tua bellezza aiuta a vivere il dono che offre è un delicato ed eterno sentimento. Il silenzio si fece desiderio di musica in voglia di festa di ballare con la luna, alzare le braccia svolazzare le gambe sotto la gonna. non è una tristezza se agli occhi di nessuno c’è la luna con peluria di luce continuò la voce e cerca un ritmo di tua natura.
fu allora che quella tremò chiamata in causa per quell’eterno rimase in ansia di stella mattutina
“Nostos”, il corrispondente greco di “viaggio”, origina la parola “nostalgia”, quindi dolore, mancanza; infatti esso non va inteso soltanto come un qualcosa di concreto e realistico, ma anche in senso simbolico di desiderio, tensione di conoscenza e di ricerca e – viceversa – di distacco, di esilio, di perdita, di allontanamento da sé e dalle cose più care. L’itinerario di Odisseo non consiste dunque solo nel raggiungimento di un porto finale, la sua nativa Itaca, bensì nel superamento di mille prove e pericoli, che gli costeranno la vita di molti compagni.
L’eroe omerico deve affrontare maghe e mostri incivili, e deve resistere a diverse tentazioni, come quelle offertegli dalle Sirene e da Calipso; il poema rivela la varietà di atteggiamenti che assume Odisseo durante il suo peregrinare: la tenacia nel sopportare le avversità naturali, l’astuzia nell’aggirare difficili imprevisti (il Ciclope), l’audacia nel valicare la sfera del conoscibile (l’oltrepasso delle Colonne D’Ercole e la discesa negli Inferi), l’abilità retorica nel narrare le varie tappe del suo errare (il racconto ad Alcinoo), nonché la forza fisica.
Ulisse, a un certo punto del viaggio, è tremendamente combattuto tra la sua irrequietezza dettata dal desiderio della scoperta e la razionalità data dalla sua invidiabile intelligenza, che anima sempre più in lui la voglia di rivedere la moglie Penelope e il figlio Telemaco che, ormai da dieci anni, attendono il suo ritorno.
Secondo un celebre aforisma cinese “chi torna da un viaggio non è mai la stessa persona che è partita”, il re di Itaca infatti rientra nella sua terra con un bagaglio carico di esperienze, di avventure e disavventure che non hanno fatto altro che accrescere le sue capacità intellettive e migliorare le sue qualità morali.
Il ritorno alla normalità, la fine della sofferenza si ha con il rimpatrio ad Itaca, e l’incontro con Penelope, un momento denso di emozione, segna il ricongiungersi di un amore ma in particolare il culmine del nostos, o meglio il compiersi del suo scopo.
Il tema del viaggio è divenuto ricorrente nella letteratura, la quale prende spunto proprio dall’Odissea, che ne è il primo esempio, ed indica in ogni opera che tratta tale argomento l’evolversi della psicologia dei personaggi.
ALLE FRONDE DEI SALICI.
E come potevano noi cantare
Con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.
È la rappresentazione degli orrori commessi dai nazisti sulla popolazione inerme degli italiani, massacri che suscitavano panico e paura tra i civili e il silenzio dei poeti. Orribili erano i morti abbandonati nelle piazze, il lamento dei fanciulli, il grido straziante della madre che vedeva il proprio figlio appeso sul palo del telegrafo. Scene reali che si verificavano nelle città e nelle campagne italiane. I nazisti occupavano il Paese e i poeti non trovavano le parole per esprimere lo sconforto e il dolore che avevano nel cuore, nell’anima. Tanto dolore paralizza la mano e offusca la mente. I poeti erano ridotti all’impotenza, avevano finito di scrivere versi e avevano appeso i lori fogli puliti al vento della guerra perché la poesia è impotente di fronte ai morti e alla barbarie. Come scrive Maurizio Dardano: «Lievi. Questo aggettivo sottolinea la fragilità della poesia e quasi la sua inconsistenza, la sua apparente impotenza di fronte ai grandi rivolgimenti della storia».
Marisa Carlà scrive: «L’idea che muove tutta la lirica è che, in presenza della violenza e della crudeltà della guerra e della disumanizzazione dell’uomo, la poesia è costretta a tacere […] Nel verso conclusivo la poesia viene simboleggiata dalle cetre appese ai salici oscillanti al vento, per l’angoscia di quei giorni dolorosi della nostra storia. La sospensione della poesia durante gli anni dell’oppressione straniera significa anche la volontà di fare poesia diversa e nuova dopo l’impronta profonda e incancellabile lasciata dalla guerra nella coscienza degli uomini».
È l’impossibilità da parte dei poeti di scrivere poesie quando la patria è occupata dal nemico, quando la popolazione soffre e piange i suoi difensori, quando la madre perde il proprio figlio. Il poeta non aveva l’animo lieto e non riusciva a trovare le parole per esprimere la propria rabbia contro il nemico occupante, così come gli ebrei, durante la prigionia in Babilonia, non riuscivano a cantare i loro salmi ed avevano appeso le loro cetre sulle fronde dei salici. Quasimodo prende spunto proprio dal salmo 137 della Bibbia dove si narra che gli ebrei avevano appeso le loro cetre sui rami dei salici e avevano perso la gioia di cantare perché prigionieri in terra straniera.
I poeti non potevano scrivere poesie finché la patria era in mani nemiche. «Un sentimento di commozione religiosa pervade questi versi, che nascono non a caso da una memoria biblica. Di qui il carattere meditativo e solenne che assume lo stesso orrore, mescolando al presente immagini archetipiche di sacrificio e di martirio ( il ricordo di agnelli sgozzati, le esecuzioni paragonate all’uccisione di Cristo, una madre che ricorda la figura di Maria ai piedi della Croce). Ma il dolore è impotente e la poesia non può offrire, per voto, che il silenzio, nell’immagine delle cetre che oscillano – quasi in balia di se stesse – alle fronde dei salici, un albero che rappresenta il pianto e il dolore». (Guido Baldi, Storie e testi pagina 353). Maurizio Dardarno scrive: «Al grido di sconforto iniziale segue la rievocazione delle atrocità commesse dagli occupanti tedeschi; in una situazione del genere il poeta non può astrarsi dalla realtà, rifugiandosi nella letteratura, ma deve condividere fino in fondo il dramma del suo popolo. Anche l’arte muore, quando muoiono i sentimenti più elementari di pietà e di umanità; di conseguenza la cetra, strumento e simbolo della poesia, rimane appesa agli alberi, inutilizzata, finché non si ristabiliscano, con il contribuito di tutti, le condizioni del vivere civile». ( da I testi, le forme, la storia pagina 839).
Il linguaggio della poesia è contemporaneamente alto e figurato, simbolico e concreto, retorico e limpido. È costruito su molteplici figure retoriche, ma è anche ritmato e cadenzato. I versi, endecasillabi sciolti, danno un andamento veloce alla poesia che inizia con una domanda retorica e una spiegazione finale. Le immagini di dolore si succedono una dopo l’altra con una velocità crescente. La risposta è lenta ed esprime la rassegnazione del poeta sull’impotenza della poesia a risolvere le sorti della guerra. Come scrive Marisa Carlà: «La lirica è composta da due periodi: il primo, in cui le immagini evocano gli orrori della guerra dell’occupazione nazista, è una lunga domanda che si apre con “E come”, che già dà il senso dell’interrogarsi angoscioso del poeta; gli ultimi tre versi costituiscono la seconda parte, esplicativa». (da Epoche e culture pagina 615)
Guido Baldi scrive: «Il discorso si sviluppa in forme più comunicative, insieme drammatiche e composte nel loro misurato rigore, attraverso la chiara scansione degli endecasillabi». ( pagina 353)
*Concezione del mondo, della vita, e della posizione in esso occupata dall’uomo; termine frequente nella storia della filosofia e nella critica letteraria.