Antico specchio

Omaggio a Cécile Kyenge

ANTICO  SPECCHIO
di Giovanni Torres la Torre

Lieve preme una luce
antico specchio dei bambini
nati nelle pianure delle erbe del mondo
o nei deserti della sete i cui orizzonti
tremano finzioni di acque
oasi di ristoro prosciugate dalle carestie.
Le terre delle nostre colline
che si affacciano con balconi infiorati
hanno la luce del mare negli occhi dei pargoli
e spesso bei nomi che evocano
profumi di biancore
chiome impareggiabili di oleandri e zagare
che adornano piazze e strade
del paese natale.
Altri nomi esaltano campioni
che rincorrono una palla che fugge
cercando una rete inesistente
infiammando di evviva un semplice gioco
già divenuto leggenda.
Ma di quelli di paesi di stelle lontane
rapiti dalla fame e dalla sete
o inabissati su fondali
abitati dalle statue delle nostre antiche divinita’
dagli eroi di bronzo effigiati in monete di Imperatori
di loro non conosciamo i nomi
né le madri possono ricordarli
infollite dal dolore
né i padri, prigionieri in qualche recinto
della nostra civiltà occidentale
e i cui nonni furono scienziati
astronomi e costruttori di piramidi
inventori di numerazioni e alfabeti.
L’anagrafe non potrà certificarne la scomparsa
non avendone registrato la nascita
sicché una moltitudine di umanita’
manca all’appello
mentre sappiamo tutto di farfalle
scomparse dalla terra
di alberi e sementi, di petrolio e pietre di incanti.

II
Molti, tra quanti raccontano per mestiere
la storia del mondo
forse non trovano le giuste parole
pur avendone il magistero per poterlo fare
nella condanna del genocidio che divora i bambini
mentre i regnanti si rinfacciano colpe
per il sangue innocente.
Altri ancora oltraggiano nomi e popoli
liberatisi dalla schiavitù
dalle rapine coloniali dei loro tesori
petrolio, boschi, diamanti
pestando le mani in cerca di giochi
piccole dita di bambini dell’Africa
protesi a cercare la vita
e madri col seno nero e senza latte
munto sino a diventare uno straccetto di pelle
secca per gli stessi tamburelli
e senza vene di sangue.
La sera grida ancora verso il cielo
lamenti senza voce
nelle poesie di dolore
del poeta congolese Bolamba
le cui parole guardammo negli occhi
ancora giovani e increduli.
Non c’era rancore contro la luna
mentre parlava del suo “pugno di sogni
alla terra e fertile semenza del desiderio
e dei frutti succulenti sull’albero del sonno”.
Del poeta straparlava il pazzo del paese
recitandone i versi che possiamo amare
dedicandoli a Cécile Kyenge.
Non c’è rame e oro più prezioso
della sua libertà, non ci sono diamanti
più preziosi del martirio di Patrice Lumumba.

III
Altri bambini veleggiano nel gioco
lontani dal commercio di uomini alcool e terre
e mani sporche di predoni.
Lasciano fuggire aquiloni sulle finestre del mare
affacciandosi da pianori
risonanti nomi di lontanissime radici
svaniti nelle memorie dei nonni
dell’antica civiltà contadina
costruttori del paesaggio della bellezza
dei muri dei terrazzamenti
e delle bonifiche delle terre demaniali
per impiantare vigne e agrumeti
gelsi e banani delle nostre pianure,
sugherete e castagni
e salendo più in sopra, altri antenati della terra
agronomi e braccianti
altri alberi, ancora da frutto e frangivento.
Capita anche di ascoltare
nelle voci gioiose della sera
vaghi suoni di armonica
passi incerti di tanghi argentini
in nostalgia di donne e vino
uno strimpellare di chitarre offese nella sacralita’
degli accordi che evocano tuttavia nomi di innamorate
confessando segreti alla resa di molti giri di bicchiere.
Sono maturate le uve e non c’è scampo alla memoria
sui fianchi dei gradini delle porte
delle case di campagna
ove fanno ombra le pergole
intelaiate con tubi zincati
travi curve di solai dismessi
e pali spolpati dall’età.
L’abile maestria delle mani dei potatori
ha ricamato coi tralci una trapunta
sotto il cielo che si intravvede appena
e i grappoli si protendono
con mammelle di acini dorati.
Tribolate dalle stagioni
le fatiche degli uomini cercano
il ristoro dell’ombra
e d’una boccata d’aria.

IV
Intrecciare i giorni come una rete
si può ancora fare tramando fili colorati
per la tessitura di un arazzo
o semplici ricami
come usavano fare le madri
accovacciate su sedie impagliate
nelle terrazze ove ora non nevica più dai gelsomini
come quando bambini grafomani
pasticciavano con l’inchiostro
immaginando figure di cavalli e cavalieri carlimagni
o con carte colorate per avventure di aquiloni.

V
Si possono ancora raccontare favole
opache di estasi di una stagione della vita
ingannata dagli incanti.
Si può nella notte delle stelle cadenti
esprimere un desiderio
per il tempo che rimane nella numerazione del calendario.
“Chi vive – diceva il pazzo del paese
giunto da lontano senza memoria di nome,
lettore di misteri e oroscopi
amante della poesia che citava a memoria
conoscitore dei nomi delle stelle
consigliere di buona sorte nelle promesse di matrimoni
e passato a miglior vita
esaurite che ebbe le scorte di fandonie-,
chi vive deve avere il coraggio di raccontare
le ragioni e le follie del tempo vissuto”.
Così sentenziando dal suo arengario – non
aveva una loggia ma quattro pietre sconnesse
accanto all’abbeveratoio –
nelle sere d’estate di frescura
quando anche i bambini scorazzavano per le strade
tracciava da stella a stella
con godimento d’astronomo
su un foglio immaginario trapunto da madreperle
le linee del suo fantastico pentagramma
– il musicomane della banda municipale apprezzava –
affidando una nota musicale
ad ognuno del coro stupefatto
dei bambini che partecipavano al rito
sicchè gli spazi si popolavano di nomi
che il dito del creatore conferiva
nell’esultanza dei battesimati.
I lettori di scartoffie
ripuliti i tubi di vetro dei lumi di petrolio
per notti e notti, di tutto ciò che è narrato
non hanno trovato testimonianza
bollando impietosamente le parole del cantore
come “cose da pazzi”.
Ai superstiti di quel tempo
per sentirsi ancora vivi piace evocare
il nome assunto nel gioco
vivendo nella leggenda
come nella vita di quell’infanzia lontana,
che i poeti possono ancora cantare
sino a quando il loro inchiostro
non perderà la memoria.

VI
E’ ancora lei
la bella signora con la falce d’argento
che cavalca chiome di frumenti
maturi nel frinire delle colline che ondeggiano
vagando di balza in balza
tra sentieri ove altri fanciulli felici
corrono ferendosi le ginocchia
e gli amanti tra le stoppie
si pungono le spalle.
Colline d’ombra declinano a ruscelletti
a piccoli anfratti di silenzio
e pozze d’acqua per il ristoro degli armenti.
Cantano le vergini spigolatrici
accecate dalla luce e frementi
in sospiri d’amore.

VII
Poche sono le notizie
delle belle menzogne della letteratura.
A suo tempo, il pazzo del paese, senza nome
arrivato di notte col suo fagotto di stracci
in sella a una vecchia Legnano
residuato bellico dell’ultimo infame regno
avrebbe lanciato un grido d’allarme
perché in un futuro non lontano
quelle menzogne nascoste
sarebbero state tragica realtà.
Ascoltandolo, il piccolo mondo dei suoi estimatori
sarebbe piombato nello sgomento.
I libri di storia di ogni epoca
raccontano le verità e le falsità dei regnanti
per gli agi da perpetuare
e le gabelle d’ogni tirannide
l’odio razziale e il dolore degli innocenti.
Non c’è scampo, così
al saccheggio della vita del mondo.
Quale lettera di consolazione sanno scrivere
gli uomini della pace
e quale promessa di libertà?
Quanti cercano conforto nei messaggi
del nulla quotidiano
non hanno di certo letto il testo
che racconta una storia incredibile
recuperato in un fiasco
che mostrava, a detta del pescatore
il rimpianto per il vino versato.
Quando l’uomo di mare depositò la reliquia
nelle mani del pazzo del paese
ritenuto saggio lettore di sacre scritture
interprete di oscuri alfabeti
e in odor di vino angelo con le ali
un pianto sconsolato lo turbò.
Nelle sue arringhe domenicali
sottraendo clientele all’altare
da allora il demente cambiò tono
insistendo su “ciò che poteva accadere
al posto di ciò che già accadeva
e quante delle cose accadute
potevano non accadere”,
per come verbalizzato dalle forze dell’ordine
più volte intervenute a sedare gli animi
degli astanti.

VIII
Si smarriscono i passi
e i giorni della speranza si tengono per mano
tentando di ritrovarsi.
Il tempo che ci è dato, d’altro canto
esclude un secondo mandato per la verifica
ed incombe il silenzio della seconda tromba.
Del terzo giorno, poi, è difficile raccontare
con serenità d’animo
e malgrado la volontà di farlo
non si conoscono le parole
risaputo che quelle del
divino geometra
con i suoi disegni a misura di sogno celeste
sono rimaste prigioniere
nel messaggio della misteriosa bottiglia.
Comunque vada
riarsi nei terreni
taceranno i pigolii ed i tremiti delle foglie
ma le melodie composte dal maestro Messiaen
i canti di ogni cuore
saranno custoditi nel museo sonoro
del bosco della memoria
nei luoghi dell’anima
nelle cavità più profonde della terra
ove si impertugeranno i silenzi e le preghiere
le parole dei racconti e delle poesie
i numeri della matematica e delle antiche porte
ove ancora poter bussare per un bicchiere d’acqua.
I superstiti delle nostre stagioni
si porranno comunque un problema:
la tragedia dei bambini del mondo
morti senza lasciare il loro nome
non sapendo sull’altare di quale divinità deporlo
né a quale scialle di dolore
affidare il corpicino
né a quali abbracci disperati di padre
stringersi nell’estrema paura.
Taceranno, s’è detto, le cicale
amiche della solitudine delle campagne
e il rimpianto smortirà nel profumo dell’aceto
quando al dolore dei tre chiodi
nessuno potrà rispondere per rincuorarlo
e il figlio del cuore attorcigliato della madre
chinerà il capo, demente
nel singulto smarrito del vento
che abbuia l’ultimo respiro del condannato.

Post scriptum:
non ci sono ultime notizie
sulle belle menzogne della letteratura.
I bambini continuano a morire un tanto a minuto.
Maramaldi con teschio in fronte
imbrattano i monumenti e i ritratti
di uomini e donne che diedero la vita
anche per la loro libertà.
Non avendo più voce
non sappiamo come faranno a pentirsi.

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