Nel bosco delle Caronie

di Giovanni Torres La Torre

GIORNATA NAZIONALE DEL PAESAGGIO, 14 MARZO 2017

I
Cosa vuole dirci l’albero fiorito?
è più bello di quando vestito a festa celebrò il suo sposalizio?
Da lontano giunge altra voce,
si muove con nuove pause nell’incertezza
di un suono di fanfara che accompagna una processione
all’entrata del paese e in luogo sicuro
a mesto riposo di foglie.
Non è musica di festa,
ascolti forse un notturno che conduce a macerie di mulini?
o a quali saluti mai uditi, se quelli di prima
sospesi sul fiume hanno lasciato impronte confuse
e tracimano ancora cercando soccorso?
o sono uccelli di voli smarriti in zone di pantani,
che arrivati da lontano hanno cambiato pentagramma
conferendo alle note desideri di nuove armonie?
e il silenzio, è possente spirito di bisogno smarrito?
sete d’amore o si tratta di tremendo inganno
del mascherone della fontana
custode della magia della goccia divina?
o è altro racconto di vita che declina in cerca di sua fine,
stanco desiderio di solitudine nel suo dominio infinito?

II
Salgono e scendono per svallamenti nella terra di Ducezio,
dal bosco dei sugheri e dal feudo Cannella
ove sognarono e morirono Luna Pallida e Ferrandino
e per come il vento tira
i profumi del carbone appena sfornato,
ma i paesi sospesi hanno fumaioli svaniti
e da quelle lontananze con indistinte altezze d’alberi,
il fumo dei fossi che arriva è semplice rimpianto
che si perde verso altre vallate
fisionomie amabili
di paesaggio con cattedrali di nuvole, dirupi di nidi e ali
ove lo sguardo può giungere perdendosi in richiami di crepacci.
Profili di altra memoria e luce dissonante
invitano a cercare le Rocce del Crasto,
altri territori, ulivi e noccioleti,
pozze nascoste segnalate da rabdomanti,
favolosi castagni nella dorata tenerezza della loro stagione
quando madonne raccoglitrici si pungono le mani.

III
Bizzarre forme di nuvole
copiano i contorni di dipinti rinascimentali
di boschi che anelano alla luce,
l’alloro di Apollo delle terre delle tortore
il mirto di Venere nella valle del Fitalia incantata nei torrenti,
le querce di Giove, i castagni e gli ulivi e le leggende
e i colori delle pitture nei cieli delle chiese
e le misure sconosciute dell’inquietudine
della luce delle vetrate bizantine
della saggezza degli apostoli tutti di umana natura,
ma sono fuggiti come se fuoco improvviso di piromani
li avesse spinti allo smarrimento
verso ruderi di castelli dominio di misteri notturni,
come se anche il vento, che Eolo custodiva nelle Isole di Cristallo,
sconvolto, frugasse in dirupi e prati nascosti
ingravidando cavalle sanfratellane
e infierisse contro le vele dei naviganti.

IV
Incubo che ritorna cambiando colore alla pietra della lavagna
alle cose minute della vita di ogni giorno,
turbando lenzuoli nelle fiabe che si raccontano,
tende inquiete che non hanno retto al vento
improvviso alle finestre di Laura delle Ninfe,
agli aquiloni innocenti che avevano accordato fiducia
alla brezza di primavera.
Ma anche la musica smarrita nell’incanto
conduce stranissimo uccello in volo divino,
suggestioni del passato che flauto traverso
riesce a svelare parlando con gli uccelli,
con la lira del dìo della musica
che nel bosco gli animali sacri ricordano col nome di Guido,
cicale volpi corvi ed Ermes, divinità dei linguaggi
che gioca alla fontana Abate con sette getti arabi
in quel di Alcara,
e gatti in amore e bambini che corrono
con rumori di boatte e col fiume Timeto
fuggito dalla fontana incantata di Federico III d’Aragona.

V
Araba Fenice, quando compare e conferisce splendore di bianco
a gesto risorto di figura innocente,
mostra la ferita in giuntura d’ala;
lenzuoli scomposti fuggono da angoli di solitudine
nascosta da lungo tempo,
stupisce improvvisa visione
che affacciandosi un lume e durando nel fiato
confida stupore di vita,
voce di scialle di madonna e violato
che chiama da preludio e svela mistero materno,
ma da poca luce velata, svanisce tra pagine dimenticate,
rischio prudente che si figura in specchio d’acqua,
laghetto montano sorride giocando con nuvole,
volto di Orfeo passando saluta
spegnendosi nelle palpebre innamorate di Euridice.

VI
A capitare da quelle parti di sogno e acque perenni
L’incanto si può immaginare:
le pietre di confine e i pioppi e i muri di pietra
i paesi dei maestri della bellezza
sono là in attesa.
Ancora oggi e per evitare ogni rumore
la mano al lume stupito si vela,
forse carezza a goccia d’oro che traballa
o gesto di pudore, di quando accostando le labbra a foglia per bere
lacrime che fingono di perdersi ti baciano la lingua
nel ricordo di quando un diverso tremore ti rapiva il respiro.

VII
Non più ragazza dai piedi nudi si bagnerà le ginocchia
nel rimpianto di quando lasciava altra timidezza all’angolo della porte
per correre al notturno di Venere lungo il fiume e con supplica
perché entrasse finalmente la notte col suo mistero
e iniziasse a parlare d’altro:
poteva essere
gentile richiesta di una canzone di Ravel,
quietatasi l’ala di mosca
che per l’intera nottata di prima
aveva raccontato ossessione di tamburi da fiera,
mai svelando il nome del fiore
nella figura innamorata rapita da sciame di stelle.

Capo d’Orlando, 14 Marzo 2017

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